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2.9.17

Il diario

racconto di Martina Lorai Meli

3° tappa del MoT challenge 2017


Avevo dimenticato tutto! Sono passati settantacinque anni.
Il tempo cancella i ricordi. Li seppellisce in un angolo così nascosto della nostra mente che ce ne dimentichiamo totalmente. 
Quando ho visto quella locandina cinematografica è stato come riemergere da un sogno. Hai presente quando ti addormenti senza accorgertene e cadi in un sonno profondissimo? Poi un risveglio brusco ti riporta al reale e per un attimo fatichi a capire dove sei e anche chi sei.
Era il 1939. Quell'anno avevo compiuto la maggiore età. A breve sarebbe arrivata la chiamata alle armi.
Rachele era bella come un fiore!
La vidi per la prima volta a maggio, davanti al cinema della parrocchia. Abitava lì di fronte. C’era proprio quella locandina sul muro: “Non ti scordar di me” con Beniamino Gigli. Credo che fosse scattato qualcosa tra noi. Lei mi aspettava ogni giorno affacciata al balcone. Io passavo fischiettando e le facevo un sorriso ammiccante. Quant'era carina! Come avevo potuto scordarla?
La vedevo spesso, seduta in una panchina del cortile di casa sua, china a scrivere in quel suo diario. Chissà cosa raccontava a quelle pagine, tutta curva e assorta. Mi incuriosiva sapere cosa le passava per la testa. Se solo fossi stato sicuro di piacerle, avrei osato farmi avanti.
Ora che ci penso mi sembra di essere di nuovo lì, con il cuore a mille e la paura di essere scoperto. Portarle via il diario era stato facile. La madre mi chiamava sempre per chiedermi aiuto con le buste della spesa. Essendo il figlio del bottegaio non destavo sospetti. Mi davano sempre una bella mancia per il servizio a domicilio, ma quel giorno la signora Rebecca non aveva monete. “Rachele, vai in camera mia a prendere il borsellino che ho lasciato sul comò”. Rachele si alzò dalla sedia accanto alla scrivania, dove, tanto per cambiare, stava scrivendo nel suo diario. Lo chiuse e lo infilò nel primo cassetto dello scrittoio. Io feci finta di guardare altrove ma non la persi di vista nemmeno per un attimo. Sua madre andò in cucina a sistemare le verdure, io presi il diario e me lo infilai sotto la camicia per portarlo via. Non prima che mi dessero la mancia, però. Un istante ancora e sarei uscito da quella casa. Sentendo i passi di Rachele tornare, una forza quasi soprannaturale si impossessò di me. Forse quel diario era magico perché d’un tratto mi sentii infallibile. 
“Sig.ra Rebecca”, dissi, dandomi un tono, “mi permette di portare sua figlia al cinema della parrocchia, stasera?“ Avrei voluto continuare e dirle: “Può fidarsi di me. Può stare tranquilla. Ho intenzioni serie con sua figlia. Io sono un ragazzo per bene”, ma la saliva mi si seccò in gola e sentii una vampata avvolgermi il viso. 
La sig.ra Rebecca mi osservava esterrefatta. Sono quasi sicuro che venne colta da un senso di disgusto giacché il suo volto assunse una strana smorfia. Da gran signora qual’era cercò di contenere la repulsione e forse anche la rabbia. Sono certo che se avesse potuto mi avrebbe urlato contro tutto il suo disprezzo, per aver anche solo pensato di mettere i miei occhi addosso a sua figlia. Il figlio di un bottegaio? con la sua pura e immacolata creatura? quale oltraggio! 
In quel momento entrò Rachele, sorridente e solare come mai l’avevo vista, ed io ancora tutto rosso in viso per l’insuccesso, quasi dimentico di aver rubato il prezioso cimelio, mi dileguai più veloce che potei.
In quella frazione di secondo vidi il suo sguardo interrogativo e una sua breve occhiata verso il cassetto ove riponeva il suo fedele confidente. 
Non so se fosse per via del diario o della mia sfacciataggine ma nei giorni successivi non rividi Rachele, né seduta in cortile, né affacciata al balcone e non vidi più nemmeno la madre. Rebecca Modigliani non mise più piede nella nostra bottega.
La mia chiamata alle armi, giunse dopo una settimana. Non portai con me il diario, anche se avrei voluto. Il rimorso mi attanagliava lo stomaco. Provai anche a scriverle una lettera. Avrei voluto raccontarle dei miei sentimenti e confessarle di aver preso il suo diario. Per un lungo periodo ci provai ogni giorno, mentre il rimorso e il rimpianto mi laceravano l’animo. 
Poi decisi di lasciar perdere. Nessuna parola mi sembrava quella giusta. Nessuna scusa sufficiente a giustificare il mio gesto. Per parecchio tempo mi domandai se lei avesse capito.
Una volta arruolato fui subito trasferito. Lo scenario politico evolveva velocemente. Le leggi razziali provocavano non pochi disordini. Per parecchi mesi non ebbi nessuna licenza.
Era passato quasi un anno quando tornai in paese.
Passai più volte davanti a casa sua ma le finestre erano tutte sbarrate. Allora mi feci coraggio e chiesi a mia madre cosa fosse successo. Mi disse solo che la famiglia Modigliani era partita di gran fretta. Non sapeva altro. Era nervosa per le mie domande e capii che non era il caso di andare oltre.
Erano tempi particolari quelli e le domande non piacevano a nessuno. Io ero pur sempre un militare al servizio dello stato. 
La guerra coinvolse l’Italia di lì a poco e io non tornai più a casa per moltissimo tempo. Quella fu anche l’ultima volta che vidi mia madre.
Rachele Modigliani aveva solo 16 anni. Pensai a lei per moltissimo tempo. Mi sentivo colpevole. Avevo lasciato il diario a casa di mia madre e non avevo idea di cosa ci fosse scritto in quelle pagine.
Alcuni anni dopo seppi che nel settembre del 1940 una divisione della polizia di stato aveva perquisito l’intero paese. Casa mia era stata trattata con discrezione in quanto risultava che ero arruolato nell'esercito con merito e fedele alla nazione. Non lo stesso accade per la grande casa della famiglia Modigliani.
Successivamente, quando la pace aveva in parte seppellito i ricordi e cicatrizzato le ferite di quella guerra assassina, ancora in paese si vociferava che i Modigliani avessero cercato di scappare ma senza esito. L’ingresso dell’Italia in guerra aveva infatti reso impossibile i trasferimenti di ebrei oltre il confine. Rachele e la sua famiglia furono costretti a tornare a casa loro, in attesa che gli venisse comunicata la loro destinazione.
Al rientro dei Modigliani in paese nessuno osava avvicinarli. Avere a che fare con un ebreo dichiarato era pericoloso quanto far parte della sua famiglia. Il governo agiva così nei confronti delle agiate famiglie ebree: espropriava i loro beni, sequestrava le case, trasferiva tutti i membri nei lager.
Non so cosa successe poi. Col tempo venni a conoscenza solo di alcuni particolari. 
Ci fu una notte in cui si sentirono urla e spari, poi un gran fumo riempì il paese. Nessuno osò uscire di casa.
Al mattino la residenza dei Modigliani non era altro che un cumulo di cenere e macerie.
Non vidi mai più Rachele, né seppi più nulla di lei. Per molti anni lei e la sua famiglia divennero un argomento tabù in paese. Eppure io avrei voluto tanto ritrovarla. Sapere come stava. Cosa fosse successo realmente. Avrei voluto vederla come solo pochi anni prima. Guardarla negli occhi e svelarle il mio gesto e i miei sentimenti. 
Ero un uomo ormai ma eravamo ancora sotto il governo nazi-fascista. Cercarla avrebbe messo a rischio la mia incolumità e soprattutto la sua. Rebecca Modigliani era ebrea. Probabilmente era stata una delle tante vittime della follia omicida di quegli anni. Col tempo, però, mi convinsi che sicuramente doveva trovarsi al sicuro in qualche altra nazione. Sapevo che, nonostante il regime, furono tanti gli ebrei che riuscirono ad emigrare clandestinamente per salvarsi. 
Il tempo sfumò il suo ricordo seppellendolo infine in un remoto cassetto della mente.
Certo, sono passati tantissimi anni ed ora i tempi sono cambiati. Chissà se è ancora viva?
Forse dovrei cercarla…

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